La cresta di San Paolo

Nella Laga dell'acquasantano, sulla linea di confine tra Marche e Abruzzo.
E' la Laga ma è una montagna comunque nuova, intricata, boscosa; presa dal versante marchigiano/abruzzese è un dedalo di valli strette e profonde, di fossi, di basse montagne boscosissime che lentamente si alzano fino a raggiungere il Sevo, il Lepri, Moscio e il Gorzano. Un labirinto di sentieri dove è difficile orientarsi ma che diventeranno presto la mia palestra. La Laga, la montagna dietro casa!


Oggi sarà Laga, quella sconosciuta per tanti, per me di sicuro, saremo sul filo di confine del versante marchigiano da quello teramano, la zona è quella dell’acquasantano, complicata e articolata in continue valli e discontinue basse e boscose montagne; il progetto è ambizioso, nessuna difficoltà particolare sia ben chiaro, siamo nel terreno del più puro escursionismo, ma raggiungere la Macera della Morte dal passo di San Paolo poco sopra san Martino e rientrare per la stessa via (altre implicherebbero giri molto ma molto più larghi!!) significherebbe ammucchiare nelle gambe 30 chilometri, con le giornate ormai molto corte non ci sono più ore di luce sufficienti e questi non sono esattamente i posti migliori da percorrere al buio. Per quanto austera e dura questa zona boscosa dove è difficile anche ricavare appezzamenti da destinare all’agricoltura ha una sua storia affascinante ed una sua importanza nel quadro sociologico dell’ascolano; per inquadrarla geograficamente in maniera semplice la possiamo pensare come l’area di basse montagne compresa tra i monti Gemelli e il tratto della dorsale della Laga che va dal Pizzo di Sevo al Pizzo di Moscio, è percorsa e scavata dal torrente Castellano che nasce sotto il Pelone e che si getta nel corso del Tronto all’altezza di Ascoli Piceno, fiume che di fatto rappresenta in questo tratto il confine naturale tra Marche e Abruzzo. Il territorio per la sua peculiarità è stato l’ambiente ideale per la crescita del brigantaggio che si è affermato e diffuso soprattutto dopo l’annessione dello Stato della Chiesa a quello d’Italia, siamo negli anni a cavallo dell’unificazione d’Italia quando nasce e si allarga la fama del “Brigante Piccioni” che con questo appellativo è stato consegnato alla storia da coloro che vincono e che la storia quindi la raccontano. L’Italia tutta è piena di questi personaggi secondari che hanno contribuito a fare la storia, vale la pena raccontare per sommi capi questa figura, quasi fosse una favola da tramandare ai nipoti: al secolo Giovanni Piccioni è nato nel 1798 nella zona del Montecalvo, su queste montagne quindi, per varie vicissitudini divenne un valoroso “centurione” volontario nelle truppe papaline a difesa dello stato della chiesa che in queste zone aveva il suo confine; nel 1831 si distingue durante i moti insurrezionali che hanno riconsegnato al Papa la città di Ascoli ma ancora di più aumentò il suo carisma quando si pose a capo di una ben addestrata guarnigione locale che organizza e comanda, tenendo testa intorno alla metà del 1800 alle truppe rivoltose repubblicane che tentavano la conquista della città, queste gesta gli consegnarono il grado di Maggiore, altro appellativo, oltre quello di brigante, con cui verrà ricordato; nel 1849 si ritira alla vita contadina tra le sue montagne ma venne presto richiamato a difesa del territorio e per organizzare la “resistenza” all’espansione sabauda che non era affatto priva di prepotenza e angherie nei confronti dei “cafoni” che tentavano una pur minima opposizione; tanto forte e temuta era la fama del Brigante-Maggiore Piccioni che si trovò contro il generale Pinelli e la sua nota ferocia. Il “brigante” riuscì a tenere “botta”, cadde e venne catturato solo grazie ad un tradimento e finì la sua vita nella fortezza Malatesta di Ascoli. Da queste parti oggi è una specie di leggenda che ha i perimetri confusi tra le gesta eroiche e quelle del guerrafondaio mercenario. Dal 1300 a quasi il 1600 questo territorio fu il “regno” di una storica, potente e truce famiglia dell’ascolano, i Guiderocchi, guerrafondai al soldo ora di questi ed ora di quelli, sono passati alla storia per la loro violenza priva di ogni remora e pietà, due figure violente di questa famiglia, Astolfo e suo figlio Gian Tosto hanno ispirato due canti nella Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Il sentiero scorrerà sotto la rocca di questa famiglia, ormai un rudere ma ancora testimone di un'altra forza prepotente che ha formato la gente di queste terre. Affascinano questi accostamenti storici, la ruralità e il confinamento di oggi già così spinto lascerebbe pensare ad uno ancora più esasperato nei secoli scorsi, scavando nella storia invece si capisce che anche se lontana dai concetti attuali di vita queste zone interagivano già pesantemente col capoluogo. E così per tanti altri territori rurali dell’Appennino italiano, le nostre montagne sono molto di più che paesaggi e senso di libertà, solo che non ce ne rendiamo conto, come non ci rendiamo conto che i sentieri che calpestiamo erano a quei tempi le strade di oggi. Al valico di San Paolo (950m.) si può arrivare dalla Salaria, percorrendo la valle Castellana fino a San Martino, da qui si sale al valico, oppure sempre dalla Salaria, da Acquasanta, località Centrale salendo per San Martino, il valico naturalmente arriverà prima; si parcheggia nei pressi di una capannina informativa, una palina con le indicazioni dei sentieri e li accanto l’inizio evidente della traccia che seguiremo. Il sentiero inizia a destra della crestina che si alza dalla sella, si infila subito dentro un bosco di castagni, i colori delle chiome degli alberi, illuminati ancora di radente, annunciano una sfolgorante giornata autunnale; scorre senza troppi dislivelli superando banchi di arenarie e affacci sulla sottostante alta valle del Castellano fino a fiancheggiare i possenti blocchi che formano lo sperone dove sorge la rocca (+30 min.), il castello diruto dei Guidobaldi ormai ridotto a poco più di un ammasso di macerie. Appena superato lo sperone una palina indica sulla destra una breve deviazione per raggiungere i resti del castello, una deviazione si breve ma molto ripida e sconnessa e con una piccola paretina rocciosa in alto (20 min. A/R). Il sentiero continua dentro un fitto bosco di castagni sul crinale di cresta, supera un’area con panchine e tavoli con uno stupendo affaccio sull’alta valle del Castellano, sui boschi e crinali fino alle linee del Pelone spolverato di bianco all’interno dei suoi blandi fossi. Inizia il tratto più intricato dell’escursione, il sentiero per poco più di un chilometro rimane sempre ben segnato da bolli sugli alberi e molto intuitivo ma è davvero poco panoramico, scorre all’interno di un bosco che per quanto sfavillante di gialli e rossi è molto intricato e pieno di frattaglie. Si esce nei pressi del Monte Libretti, piccola anonima elevazione boscosa di poco oltre i 1200m di altezza, si aggira su uno splendido blocco di arenaria (+50 min.) che forma il suo spigolo Sud che si aggetta verso la valle castellana; una larga, lunga e molto suggestiva cengia aggira lo spigolo, oltre la cengia il blocco di arenaria continua a scivolare compatto e liscio verso valle fino a confondersi nel bosco sottostante, un tripudio di gialli e rossi macchiano il profondo orizzonte che si allarga fin sulle vette più alte della Laga; un angolo molto suggestivo, quasi onirico in questo periodo dell’anno e molto panoramico, l’alta valle castellana è un presepio di piccoli borghi incastrati in sterminate distese di bruniti faggi e qua e là macchie più o meno isolate di accesi aceri e frassini, un’apoteosi di sfumature e suggestioni, un paradiso rurale che solletica le più ataviche emozioni di noi che andiamo per montagne. La cengia dopo aver aggirato lo spigolo del monte Libretti si raccorda con la dorsale che vira verso Est, l’orizzonte si apre a Nord dove viene chiuso dal profilo del monte Vettore, il colpo d’occhio che viene restituito è davvero notevole; nel mezzo un dedalo intricato di boschi, creste secondarie e valli, si intuisce il solco dove scorre il Tronto, nel grande imbuto sotto i nostri piedi, tra noi e la cresta del Piangrano che sale dal monte Comunitore alla Macera della Morte c’è un labirinto infinito di piccole elevazioni e di sottili dorsali, quasi impraticabili, che salgono fin sulla cresta principale e lì nel mezzo, poco sotto la valle della Corte che si chiude sotto la Macera, da qualche parte, scende la cascata della Volpara; un territorio intricato, affascinante, penso difficile da perlustrare, un giorno mi deciderò a raggiungere Umito e provare ad inoltrarmici. Dopo poco meno di un paio di chilometri anonimi all’interno del bosco superata una lingua di arenaria che scorre in cresta quasi fosse un marciapiede occorre prestare un minimo di attenzione, l’arenaria lascia al posto ad un manto erboso che prende a salire, d’istinto si tende a seguire il profilo di cresta come abbiamo fatto noi ma ben presto si viene fermati da” frattoni” impenetrabili di boscaglia; ridiscesi proprio sul limite in cui l’arenaria lascia il posto all’erba, sulla destra si stacca una definita traccia ben segnalata da bolli sui tronchi una decina di metri più in là; si entra in un breve tratto di abeti bianchi e pini fino a ritornare in un “caldo” e colorato bosco di faggi di nuovo sul versante sinistro della dorsale; si supera una pista che scende a Piani Cattini per inoltrarsi di nuovo in un rado e alto bosco di faggi, stavolta in ombra fino ad aggirare la boscosa sagoma di colle Pidocchi, altra anonima cima boscosa di questa lunga dorsale. L’ampia traccia sfocia su un quadrivio di sentieri dove una palina erroneamente assegna al luogo il toponimo di Colle Pidocchi (1469m.); non siamo lontani ma un momento di confusione è inevitabile, per continuare sulla traccia del sentiero Italia 300 occorre svoltare decisamente a destra, in salita dopo un centinaio di metri si esce dal bosco su un’ampia sterrata che apre gli orizzonti verso il Pelone ed il Moscio, davanti poche centinaia di metri il vero Colle Pidocchi (+1,30 ore), mammella boscosa di poco conto. La traccia che nel frattempo si è fatta sconnessa riamane ampia e molto evidente, sotto Colle Pidocchi vira decisamente a sinistra e tra boschi, radure raggiunge un intaglio tra gli alberi già molto evidente da tempo; raggiunta e superata la sella dell’intaglio boschivo si incrocia e si supera la palina che indica la Casermetta di San Gerbone, un sentiero che si getta dentro la valle sul versante a sinistra; Marina mi racconta di esserci arrivata in inverno, ciaspolando sulla neve. La nostra traccia continua sfiorando i boschi e traversando verso destra ampi pratoni per poi risalirli di nuovo verso sinistra; poche chiazze di bosco introducono in altri lunghi pratoni, vere isole tra gli alberi, il toponimo sulle carte è Prato Lungo (+40 min.), da qui si gode una vista sulla valle del Castellano e sui monti Gemelli davvero unica, e per me nuova; sulla nostra destra sembra impossibile, si allunga sopra i boschi vicini la sagoma del Corno Grane e la lunga dorsale fino al Prena. Prato lungo si chiude su una “foresta” di faggi, da qui in avanti per un paio di chilometri non la abbandoneremo più. Un recinto per gli animali introduce nella magia di larghi viali tra alti fusti di importanti faggi, a terra il tappeto di foglie è alto, i colori sono diventati bruciati, le chiome rade sono pronte a chiudere il loro ciclo, le tonalità brune e calde ci restituiscono un senso di calma e di pace. Siamo intorno a quota 1700m. e scorriamo su una lunga dorsale piatta di orizzonti celati, assoluto il silenzio, Laga insolita, isolata, lontana dai sentieri battuti e frequentati, anche i profili che si aprono ogni tanto non sono consueti, quelle cime appuntite tante volte osservate ora sono rovesciate, come fossero allo specchio, stento a riconoscerle; la Macera, siamo abituati a vederla come il prolungamento lento dello spigolo Est del Sevo da quì è il culmine di un lungo e tagliato crinale che chiude un vallone intricato e selvaggio, il Moscio e il Pelone non appaiono montagne lontane e isolate, tutto diverso rispetto a quando sali dal versante amatriciano. Peccato davvero che il bosco non ci abbia abbandonato e non permetta una completa visuale sulla dorsale principale della Laga. Ci rendiamo conto nel frattempo che la giornata si è allungata, il tempo è scorso inesorabile, la Macera è ancora lontana e difficilmente potremmo raggiungerla e nello steso tempo assicurarci un rientro con la luce, purtroppo lo avevamo preventivato; vorremo almeno riuscire a vederne il profilo nella sua interezza a goderci un po’ le linee della Laga da questo versante, diamo un’occhiata alla carta e decidiamo di raggiungere monte Cesarotta, è un 1800, abbiamo la speranza che sporga dal bosco, ma quando ci siamo sopra (+50 min.), si eleva appena una cinquantina di metri sul sentiero, cambia poco o nulla, rimaniamo al livello delle chiome spoglie dei faggi, i profili della Laga rimango celati, appena si intuisce la loro continuità, dovremmo almeno raggiungere monte Fonteguidone di appena 60m. più alto del Cesarotta per poter scoprire l’orizzonte ma è un chilometro e mezzo più in là, ci saremmo portati al limite della disponibilità di luce per il rientro; è sempre un triste il momento quello della rinuncia, soprattutto oggi che non abbiamo quasi messo il naso fuori dal bosco, che abbiamo sentito la presenza della Macera ma che non l’abbiamo nemmeno vista. La cresta di San Paolo è famosa per i suoi 15 chilometri di lunghezza, affrontarla nel periodo autunnale inoltrato è decisamente poco consigliato se non fosse per il tripudio di colori che la inonda dall’inizio alla fine. Le montagne non si muovono, ci rassegniamo e ci godiamo sole e silenzio mangiucchiando qualcosa prima di riprendere la via del rientro, in fondo era un assaggio della Laga presa da questo lato, le montagne si conoscono per gradi, ci sarà modo di ritornarci e di pensare in grande. Il rientro ce lo godiamo tutto, con la luce del pomeriggio che si abbassa che e va scaldando i colori e allungando le ombre offre momenti di vera poesia, quando perdiamo quota quello che basta per ritrovare Castagni, Pini, Aceri, Frassini e Roverelle è come immergersi in una tela di Camille PIssarro, anche nei boschi lontani chiazze gialle di aceri spiccano tra le chiome arrugginite dei faggi, la valle castellana è più che mai il presepio colorato disseminato di piccoli borghi e stradine tortuose. Sostiamo sul cengione sotto monte Libretti per cercare di memorizzare ogni dettaglio, il Corno Grande che sbuca sopra i boschi contrasta in maniera aspra con i profili dolci di questi boschi ma nello stesso tempo restituisce a questi monti la centralità nel mondo appenninico. Come spesso accade prendo in poca considerazione le basse montagne che avvicinano le cime più alte e che qui più che in altre zone sono un mondo a sè, sono territori davvero per pochi, dove facile è perdersi, dove solo fungaioli e cacciatori sanno muoversi; ho maestri nell’ascolano che mi possono aiutare per fortuna, per loro la Laga da questo versante non ha segreti, il tempo non manca per venirli a conoscere come si deve. Rinunciamo a salire sulle rovine della rocca di Montecalvo, abbiamo nelle gambe quasi 20 chilometri, rimpiangeremo di non averlo fatto ma in quel momento desideravamo solo arrivare alla macchina. Raggiungiamo il valico di San Paolo (+4,20 ore) con forse ancora un’ora di luce davanti, non ci sarebbe stata sufficiente, se ne vanno anche i rimpianti che si erano insediati nei nostri cuori. Si apre invece un capitolo nuovo per me, lo chiamo voglia di Laga, quella meno conosciuta; appuntamento alla prossima primavera per iniziare a scriverlo.